Articolo del 3 aprile 2022

Come in un romanzo di Gabriel Garcia Marquez

Mi capita di riprendere in mano qualche libro amato, devo confessare che Marquez mi ha sempre intrigato ma non è tra i miei autori preferiti. Difficilmente rileggo qualcosa di suo, ma ho riletto il suo romanzo breve “Cronaca di una morte annunciata”. Nulla viene per caso e senza volerlo la rilettura mi ha portato dentro la cronaca recente. E’ questa la forza dei libri, parlano ai lettori e li interrogano. Dalle prime righe si sa già come va a finire, «Il giorno che l’avrebbero ucciso, Santiago Nasar si alzò alle 5,30 del mattino…”, tutti noi sappiamo che Santiago verrà ucciso quel giorno. Il problema è che tutti sanno che Santiago verrà ucciso meno che lui. Mi fermo qui e rifletto, tutto quello che sta accadendo alla nostra Europa era già scritto da tempo. Non occorre essere politologi o strateghi per vedere che la strada era preparata e l’Europa, - noi tutti - non ha fatto niente. Mi sembra che siamo tutti immersi dentro un mondo individualizzato, l’altro non c’è se non in relazione a quello che mi serve personalmente. Ho avuto modo di ascoltare molti interventi in questo periodo, alcuni decisamente schierati per far sentire la propria voce e confermare un personalismo, altri volti a portare il tema direttamente alle coscienze. L’Italia si è attivata in maniera molto concreta e ha dimostrato di saperci essere quando serve, azioni di sostegno e solidarietà, capacità di accogliere e donare ma qualcosa sfugge. Sfugge la possibilità di riprendere in mano la politica in maniera diffusa, di sentirsi parte di un mondo che noi stessi possiamo edificare o distruggere. Manca la vera implicazione dentro la storia perché forse manca il senso di appartenenza a una storia che bene o male ognuno di noi ha la responsabilità di costruire. Tornando alla cronaca annunciata, dove eravamo tutti mentre i “piani alti” stavano in silenzio e fingevano di non vedere? Ci si sveglia quando il latte è versato. Ripenso sempre alla guerra in Bosnia, chi abitava il confine si sentiva dire da tanti e tanti anni che si viveva sopra una polveriera, poi tutto è scoppiato e allora si, l’attivazione nell’emergenza. Possibile che sappiamo attivarci solo in emergenza? Così è successo con il fenomeno migratorio e ancora non c’è un piano definito anche se le migrazioni fanno parte della quotidianità (piccolo inciso, gli ucraini sono profughi, i siriani, afgani, curdi sono clandestini). Forse tutte queste difficoltà a leggere la realtà e ad attivarsi effettivamente rimanendo sul qui e ora, prendendo in mano la storia mentre la si sta vivendo, sono derivate proprio dalla fatica di considerare veramente l’altro. Troppo incentrati su di sé, troppo vittime del narcisismo imperante si è portati a non attivare più la necessaria empatia che consente da un lato di vedere l’altro per quello che è, e dall’altro di considerare che dentro ogni conflitto ci può stare una parte positiva, sta ad ognuno di noi avere la voglia e la capacità di crederci e di dare spazio all’altra parte. Solo così si può pensare di passare alla mediazione e alla negoziazione. In caso contrario inevitabilmente si continuerà a ragionare per vittime e aguzzini, vincitori e perdenti.