Articolo del 2 gennaio 2017

Annualità Kramavidya

IL FIORE DI SCHOPENHAUER


“Kriya è la componente mentale che deve essere sempre presente all’interno di ogni posizione perche questa possa effettivamente definirsi Asana “.

Abbiamo iniziato a studiare gli elementi del krama vidyā, come nello hatha yoga siano presenti le opportunità e possibilità di meditare avvalendosi degli ingredienti forniti dalla percezione, dalla consapevolezza e dalla capacità di centratura. Riflettevo sul significato di Asana e su quanto la posizione debba partire “da dentro” per non incappare nella trappola del condizionamento esterno. Un po’ meno presente forse quando si pratica da soli , ma sicuramente una tentazione quando si è detto un gruppo. Asana non è forma esteriore, bensì ricerca e disposizione interna. Mi sovviene un pensiero di Schopenhauer :


“Trovai un fiore di campo, ammirai la bellezza e la perfezione di tutte le sue parti, ed esclamai: “Ma tutta questa magnificenza, in questo fiore e in migliaia di fiori simili, splende e fiorisce non contemplata da alcuno, anzi spesso nessun occhio la vede”. Il fiore rispose: “Stolto! tu credi che io fiorisca per essere visto? Io fiorisco per me e non per gli altri, fiorisco perché questo mi piace: nel fatto che fiorisco e sono consiste appunto la mia gioia e la mia voluttà“[1].

Il fiore basta a se stesso e fiorisce per se stesso. Prendendo come buono questo ragionamento potremmo dire che una volta in più la Natura insegna a coltivare la propria interiorità per il gusto di crescere, di essere belli per sé, senza dover esibire agli altri ciò che si è.
Queste riflessioni mi hanno molto colpito e guardandomi in giro con addosso questi occhiali penso a quanto ho da imparare dalle cose più piccole e umili, apparentemente piccole e apparentemente umili. Il fiore è bello per se stesso, non gli importa del resto del mondo. Frutto di una consapevolezza e di una ” bellezza” interiore. Non gli importa nulla dello sguardo degli altri, non si fa bello per gli altri, tutto ciò che è lo è per se. Asana è per me e per nessun altro, solo così l’efficacia c’è a scapito del condizionamento.


Una mente che “fugge”

Tenere viva la concentrazione ed essere sempre “sul pezzo” è però decisamente difficile. Anche accompagnata dalle tecniche pranayama la mente tenere a scivolare verso l’esterno, cercando di dar degli in- put al corpo diversi dalla propria figura interna. È qui credo che diventa topico l’utilizzo del Kriya.
Riuscire ad ” allenarsi” a creare percorsi che attraversino velocemente le membra può mantenere viva la consapevolezza e trainare efficacemente verso quella meditazione, quell’assorbimento che ogni sequenza promette. E questa la strada per iniziare un percorso di crescita e continuare un approfondimento costante verso noi stessi e poi verso il Tutto.

[1] Arthur Schopenhauer, Parerga e polimina, 1851


LA VIA DEL RITORNO

“Il mio corpo è un edificio che conserva la forma, mentre sostituisce continuamente i mattoni. E’ un elemento del mondo materiale, da cui è indissociabile: è un ingranaggio nell’immensità del cosmo: tutto ciò è evidente, eppure miscononsciuto. Certamente, il rapporto che io ho con la materia del mio corpo è particolare. In realtà, il mio corpo, anche se materiale, è quel luogo privilegiato dello spazio dove “io” strutturo la materia, dove “io” costruisco questo corpo umano”.

André Van Lysebeth, Tantra, Mursia 1992, pag.105


Mi sembra molto interessante lavorare sul ritorno nelle sequenze o nelle singole posizioni. Non trovo facile riuscire a tenere la stessa attenzione che ci si mette nella fase di andata. Siamo portati – come sottolinea bene la dispensa – a voler affrettare, a uscire in fretta. Per cosa? Per fare altro? Per passare oltre? Domane topiche.
Probabilmente ha a che vedere con la capacità di attenzione, ne mettiamo una buona dose all’inizio, poi inevitabilmente scema dopo quel tanto. Grazie ai suggerimenti e alle sollecitazioni dei docenti, ho provato a stare dentro la pratica con maggior attenzione e cercando il più possibile di collegare anche l’astensione dal giudizio. È successa una cosa strana, ho ritrovato il cerchio.
Provo a spiegarmi meglio.


La quadratura del cerchio

Anche per la pratica yoga mi capita di vivere le stesse sensazioni delle escursioni in montagna. Attenzione è gioia all’andata, pieno godimento nel momento in cui si raggiunge l’obiettivo, la vetta e la posizione statica, una certa fretta durante la discesa, con la caduta motivazionale e forse il disinteresse perché la strada già là si conosce.
È la curiosità che viene a mancare, assuefatti da stereotipie mentali che non consentono di vivere con un buon grado di consapevolezza l’unicità di ogni momento.
Riflettendo e soprattutto praticando con i nuovi “occhiali” di krama vidyā ho scoperto che la pratica non è come l’esclusione in montagna, bensì some l’arrampicata.
Arrampicare ti costringe alla massima attenzione nel momento della salita, respiro con ritmo preciso, corretto rilascio di alcune fasce muscolari e attivazione di altre. La vetta raggiunta è quell’apice adrenalinico che ti fa dire : “sono un granello appartenente al tutto e sono un pezzetto di tutto”. La lenta discesa- perché non si può stare sempre lassù, ad un certo punto è necessario ridiscendere – prevede la medesima attenzione della salita, solo a ritroso, attenzione al ritmo respiratorio, alla tensione dei muscoli, rilascio che non deve mai essere eccessivo. Ecco l’uscita dalla parete ed ecco l’uscita dalla posizione.


Il cerchio si chiude

Dicevo, il cerchio si chiude. Praticando con questa nuova piccola illuminazione ho sentito un cerchietto si chiudeva. Dalla posizione di partenza, entrare nel l’asana fermarmi, ritornar e ritrovar la posizione di partenza. Un cerchio simbolico che racchiude la mia piccola esperienza di vita. Del resto, che cosa è lo yoga se non la metafora di tutta la nostra vita? Con le gioie e i dolori, le consapevolezze e i tanti momenti di a- vidyā. Per me lo yoga non è lo straordinario, ma l’ordinario irrorato di luce nuova, del resto si pratica per crescere, per migliorare, per vivere e non per lasciarsi vivere.


CHI SA NON DICE, CHI DICE NON SA, CHI NON SA NÈ DICE, PUÒ TUTTO.

Chi sa non parla; chi parla non sa.
Confondendosi esteriormente con l’uomo comune, l’uomo reale è al di là dell’onore e al di là del disprezzo: per questo è ciò che di più alto vi è al mondo.
Lao Tzu, IL TAO

È troppo ghiotta la sfida per non cadere nel peccato di presunzione di sciogliere l’arcano.
Nella pratica della terza lezione ho potuto assaggiare con vero godimento il tema della propriocezione soffermandomi sulla pelle, sulla necessità di stabilire un contatto a partire dall’interno che mi consenta di provare brividi per l’intensità di un lavoro che richiede tutto sè stesso.È stata una lezione oltremodo interessante, mette in relazione la possibilità di stare dentro una cornice corporea nella tensione di provare quell’immobilità concessa solo raramente, dove la mente effettivamente riesce a vivere un’unità tale per cui si è immersi nello yoga dell’azione e in quello della conoscenza.
Ovviamente nell’abbozzo minimo di questo yoga.
Lo yoga della conoscenza stimola la mente a non fare, lo yoga dell’azione stimola il corpo e la mente a fare. Mi sono chiesta, alla luce di questo, dove posso collocare la mia esperienza quotidiana. Credo che ognuno di noi sia portato verso quel desiderio di conoscenza che lo porti al punto da non dover più desiderare, conoscere per potersi immergere nel fatto che non siamo noi a respirare ma è il Tutto che respira in noi.
Ognuno, per quanto si proclami ateo, ha in realtà una tensione verso la spiritualità, per poter dare una risposta alle grandi domande dell’uomo e finalmente potersi abbandonare a non dover chiedersi più nulla perché è l’esistere stesso che può rispondere per noi.
Lo yoga dell’azione è quello yoga dell’esperienza, dove possiamo collocarci ancora a livello di ricerca, di volontà di compiere qualcosa pur senza l’obiettivo di avere riconoscimenti, ma più vicini all’esperienza. Dunque all’interno di queste due polarità posso trovare un significato al mio voler stare dentro un Asana. Creo una forma cercando il più possibile di stare dentro la consapevolezza che il cammino intrapreso è fatto di tutto quello che ho acquisito fino a quel momento, è una forma che rappresenta me stessa nella mia totalità, con le cose che ho imparato, ho vissuto, sto vivendo. Mi colloca in un precedente che giorno per giorno si trasforma e cresce con tutte le varie consapevolezze ricevute e acquisite.
Asana è krama, se per krama intendo un progressivo incremento dei piccoli passi utilizzati per approfondire la mia esperienza di vita. Lo yoga si situa dentro tutto questo e non è più considerazione filosofica, nè performance stilistica, nè studio cognitivo, ma è semplicemente vita che cresce giorno dopo giorno nella possibilità di “sedere tranquillamente senza fare nulla, la primavera giunge e l’erba cresce da sè” (Zenrin Kushu).
Il corpo è quella possibilità di accedere a forme specifiche, agli Asana appunto: attraverso il corpo capisco, attraverso il corpo sperimento, perché io sono corpo. Non ci può essere dicotomia tra corpo e mente, la mente è nel corpo e viceversa, pertanto il lavoro di propriocezione e approfondimento non può prescindere da tutto questo.
La dicotomia fa parte del mondo, fa parte dell’esoterismo, la morte appartiene alla vita così come la gioia al dolore e il bianco al nero.
La frase stimolo penso significhi questo.
Nel momento in cui lo yoga dell’azione e lo yoga della conoscenza non sono più due ma diventano uno, non nel senso di fusione ma di consapevolezza che l’uno senza l’altro non ha senso, allora si superano tutte le barriere e si può tutto perché si giunge ad essere uno senza troppe domande, senza desideri, senza voglia di arrivare.
Non mi preoccupo che sia corretto o meno questo mio pensiero, mi basta essere giunta alla considerazione che non devo arrivare da nessuna parte, ma devo semplicemente cogliere tutto ciò che mi viene dato, cercando di stare dentro un percorso di crescita interiore che passa per quella esteriore. Yoga non è disciplina, non è forma esteriore, così come non lo è Asana. Yoga è processo continuo e continua evoluzione, è stare nell’oggi consapevole.


È IL RESPIRO CHE FA LA DIFFERENZA

Lo yoga si volge verso l’interno del corpo. Il suo scopo non è tanto quello di costruire una muscolatura imponente, quanto agire in profondità sugli organi, nel sistema nervoso, nella respirazione. Il suo obiettivo: perfezionare tutto l’individuo.
(A. Van Lysebeth, Imparo lo yoga)

Respirazione addominale

Mai come in questa lezione ho potuto sperimentare a fondo il significato di krama come progressione. Con il termine krama stiamo dicendo molte cose, prima fra tutte il processo di successione di ogni istante. Krama denota le fasi in succession di una sequenza, un continuo mutamento condito di approfondimento, lentezza, consapevolezza, profondità, delicatezza…
Krama è tutto questo ed è ovviamente molto altro, ma l’idea di progressione agganciata al respiro è quella che mi ha colpito maggiormente.
Prima di tutto l’esperienza. Sperimentare la consapevolezza respiratoria espandendo a tratti una o l’altra parte del corpo consente di mettere assieme tutt’e le esperienze precedenti, di questa annualità e non solo. Se inspiro ed espando l’addome posso concentrarmi sulla pelle che si distende, sui muscoli che si allungano, sui visceri che in qualche modo cercano una loro collocazione redistribuita e poi su quell’interiorità che è data dall’essere respirata.
Con l’espiro il perineo che si attiva per far partire quella lieve contrazione atta a svuotare l’addome, a contrarre i muscoli addominali per consentire di far fuoriuscire l’aria dal basso, consente ancora altre valutazioni interne, di nuovo i visceri che si ricollocano, la pelle che si rilascia e quindi non si avverte più il contatto sfregante con gli indumenti, il bacino che leggermente va in anteroversione, una cosa piccolissima ma presente, e il lasciar andare. È il respiro la magia, quel lasciar andare che significa “restituire il respiro a chi me l’ha infuso”.


Respirazione toracica

Altro passaggio, la respirazione un po’ più alta, l’espansione del torace a partire dalle costole fluttuanti, una zona che personalmente sento molto mia, forse per la magrezza che mi consente di giocare talvolta proprio con quel pezzetto di costola che va su e giù. Le sento e scopro che le percepisco da dentro, non ho bisogno di toccare con le mani e sento anche – o forse immagino, perché lavorare con certe percezioni è anche mettere in campo l’immaginazione – il punto dove il diaframma si attacca alle mie costole, sul dorso. Visualizzo questo diaframma che scende nell’inspiro ed espande i miei polmoni, si alzano un poco le clavicole, sento lo spazio tra le scapole, poi scendo ed anche l’addome si espande e ritrovo le cose di prima, la pelle espansa, i visceri, le ossa del bacino.
E nuovamente l’esperienza dell’espiro che si fa più importante, quasi più densa.
Lo so, non sto dicendo molto, nulla di nuovo rispetto all’esperienza guidata dall’insegnante, eppure il nuovo è dentro la mia scoperta.
Lavorare sul respiro con krama vidya mi consente di mettere assieme molti pezzi, di ricollegare prana vidya ma anche hatha vidya, di sentire il lavoro su alcuni centri che nell’annualità di kundalini abbiamo chiamato chakra, ci sto lavorando, li visualizzo idealmente e so che è lì che sto intervenendo. Ma anche kriya, la profondità e la progressione mi consente di vedere questa osservazione come una possibilità di metterci un kriya e quindi farla diventare ancora più importante.


Mettere insieme i pezzi

È questo quello che che ho sperimentato in questa quarta lezione, la possibilità di mettere assieme i pezzi per costruire pian piano un puzzle che ha una valenza bella sul tappetino ma via via che il tempo passa sta assumendo sempre più valenza per il mio quotidiano.
È proprio krama vidya a darmi la possibilità di tradurre meglio la pratica in quotidianità. Alzo una valigia da terra: divento consapevole non solo di quello che accade nel mio corpo ma anche vigile su quello che posso o non posso attivare per fare un gesto consapevole che non mi faccia male. Anche il respiro che non deve essere monco ma profondo ed arrivare in tutte le zone del mio corpo che sono interessate all’azione. È questa la forza di questa annualità, la forza che ci porta ad essere sempre più presenti a noi stessi – a me stessa- mettendo insieme tutti i pezzi che via via la scuola mi sta offrendo. Del resto, come spesso mi ritrovo a dirmi, non importa che io faccia yoga, importa che io mi senta e diventi yoga.


KRAMA: BISOGNO DI TEMPO

“Il prâna è la base ultima su cui poggia la vita, e la respirazione, oltre chegli aspetti strettamente ponderali come l’ossigeno, gestisce altri aspetti sottili, pranici o energetico-spirituali, senza i quali l’ossigeno e tutti gli altri metaboliti non potrebbero fare niente.”

David Donnini (a cura di ) Le perle del Tantra, Massari Editore, 1996, pag.71


Durante la lezione quinta abbiamo ripreso alcuni elementi fondamentali sia legati al respiro che legati agli asana. La pratica proposta come esercizi ha fatto si che noi tutti esplorassimo con attenzione ciò che realmente accade dentro il nostro corpo e quanto il respiro sia presente o meno, dove, quando, per quanto tempo.
Il respiro come segnale inequivocabile della possibilità di essere dentro un atteggiamento yogico o meno.
Due elementi mi hanno interessato più di altri, a livello di sperimentazione personale ma anche di considerazione per la mia quotidianità – elemento per me imprescindibile.
Il primo elemento è dato dalla necessità di avere tempo per capire, per ascoltare, per entrare in una dimensione di comodità. Sthira Sukham. Non è stato usato questo termine dai maestri, so perfettamente che tale modo di dire appartiene a Patanjali, ma a mio avviso corrisponde esattamente a quello che dovrei sentire mentre mi trovo dentro un asana. Stare comoda ma al contempo esserci, salda nella correttezza di una posizione. Piacevolezza concentrata, raggiunta tramite un lento entrare nella piena attenzione di ciò che sto facendo e standoci bene.
L’altro elemento è la consapevolezza respiratoria e la spia che un asana non può chiamarsi tale se il respiro non lo riempie, non lo abita fino in fondo.
Un respiro bloccato, interrotto, affannato, distonico non può abitare un asana. Se il respiro n on lo abita prana viene bloccato.
Questi due elemnti, esplorati e approfonditi sono stati a mio avviso il fulcro della lezione, un apprendimento interessante e significativo per quel che concerne il krama.
Pian piano sto entrando nella comprensione che krama non è solo progressione nella pratica, nella capacità di accomodarsi fino a trovare la posizione corretta e confortevole, stirare dolcemente i muscoli per renderli adatti a rimanere, riempire con il respiro la forma e sentirsi riempiti.
Krama è progressione nella pratica del quotidiano, acquisire sempre piccoli pezzetti che sommati uno all’altro, anzi fusi uno all’altro compongono quella condizione che va ben oltre la forma.
Lentamente, con l’aiuto del fuoco sacro della passione, con quel tapas alimentato da tejas che dovrebbe accompagnare ogni nostra giornata, krama diventa il senso e significato di entrare nella Vita


LA POSIZIONE LIMBICA, UNA SFIDA INTERESSANTE

“Non si può osservare un sentimento in nessun altro, ma si può osservare un sentimento in se stessi quando, in quanto esseri coscienti, si percepiscono i propri stati Emozionali
Antonio Damasio[1]

Ripensando alla sesta lezione di quest’anno, sono rimasta particolarmente colpita da tutta la nuova proposta della sequenza tenendo conto delle varie posizioni, quelle di apertura di chiusura e le cosiddette neutre.
Avendo considerato nel tempo (e sperimentato durante la pratica) le varie aperture e chiusure collegate all’inspiro ed espiro, al ritmo tipico che le contraddistingue (apertura verso l’esterno, chiusura verso l’interno), mi sono maggiormente incuriosita e soffermata nella mia analisi sulle posizioni cosiddette neutre.
Le posizioni neutre di rapporto, quelle torsioni che mettono in collegamento la chiusura con l’apertura mi sono state abbastanza familiari. Speso trovandomi dentro un asana in torsione ho avvertito la effettiva connessione tra dentro e fuori, tra apertura all’esterno e riflessione verso l’interno.
Mi sono maggiormente soffermata su quella che i nostri maestri indicano come posizione limbica, di abbandono che però non è chiusura e non è nemmeno ritrazione.
Mi ha incuriosito il concetto di posizione limbica e non ho potuto non collegarlo con tutto ciò che è dentro la mia esperienza.


Il Limbo luogo-non luogo

Come prima associazione di idee non ho potuto non ricordare il primo cerchio dell’Inferno dantesco dove si trova quel Limbo. Già il fatto che limbo derivi da lembo, ovvero da orlo estremo (in questo caso della voragine dell’inferno) è una prima lettura per questa posizione. Il Limbo era notoriamente quello spazio che stava tra inferno e paradiso, uno spazio dove stazionavano quelli che non erano degni del paradiso ma non erano neppure indegni. Uno spazio che io da bambina ho sempre immaginato come una sorta di fiume di panna montata, chi c’era si fermava lì e non stava né bene né male, in piena assenza di emozioni, di sentimenti ma anche di dolori. L’ho sempre immaginato come un elemento degno di equilibrio. Oggi la Chiesa lo ha tolto dalle sue implicazioni (ed era ora! Chissà perché la letteratura ha potuto influenzare tanto la vita dei poveri credenti di tutti i tempi). Il Limbo non esiste più per il mondo ecclesiale ma nell’immaginario rimarrà ancora per un bel po’, quel posto senza pace e senza guerra, senza caldo e senza freddo, senza luce e senza oscurità. E questi asana “neutri” possono essere ben rappresentati in questo senso.


Il sistema limbico[2]

Se da un lato la parola limbico mi ha fatto andare subito alla Divina Commedia, cedendo a influenze infantili o scolastiche di primo pelo, dall’altro si è attivata un’altra riflessione, un po’ più adulta, legata al sistema limbico inteso neurologicamente. Questo sistema viene considerato l’epicentro dello sviluppo delle emozioni ma è anche l’area del cervello che aiuta a mantenere l’omeostasi, ossia un ambiente costante nel corpo.
I meccanismi omeostatici localizzati nel sistema limbico regolano funzioni come:

  • il mantenimento della temperatura corporea
  • la pressione arteriosa
  • il ritmo cardiaco
  • il livello di zuccheri nel sangue.
  • In assenza di un sistema limbico noi saremmo a “sangue freddo” come i rettili.
A questo punto, proprio pensando alla relazione tra apertura e chiusura, inspiro ed espiro, sistole e diastole, caldo e freddo, fuori e dentro, mi viene spontaneo pensare alla mente all’interno di una posizione limbica. Quanto le nostre emozioni sono dentro questa posizione? Quanto sappiamo stare nel qui e ora sapendo vivere ciò che è dato in quel preciso momento, pertanto chiedendo alla mente di trovare un aggancio per “stare”?
E’ pressoché impossibile staccare la mente, pertanto nella posizione limbica posso associare il moto ritmico dell’espansione e della contrazione (inspir ed espir) collegandola al principio che governa la manifestazione vitale per eccellenza: il respiro.
La respirazione è strettamente collegata con l’omeostasi, la posizione limbica è quella posizione che mi consente di comprendere a fondo il concetto omeostatico e mi consente anche di rimanere in collegamento con il ritmo che si crea dentro di me, in relazione con il fuori di me. Anche a livello emozionali.
Nel Limbo dantesco omeostasi è assenza di emozioni, sentimenti, manifestazioni; nel cervello limbico è capacità di mantenere l’equilibrio tra tutti gli elementi fisiologici e naturali, nello Hatha Yoga è capacità di assorbimento nella presenza e non nell’apparente assenza data da assopimento.
Non ci avevo mai fatto troppo caso. Finchè si è lavorato con la parcellizzazione, con la frantumazione delle posizioni, del respiro, delle ipotesi di lavoro con la consapevolezza, con la coscienza, con la comprensione non avevo sottolineato a sufficienza questo concetto omeostatico collegato al respiro e al movimento.
La posizione limbica diventa per me essenziale per poi consentirmi di attivare la mente nella consapevolezza dell’apertura e/o della chiusura di quegli asana che seguono.
Al solito, grazie agli stimoli che fanno crescere ed andare sempre più in profondità.

[1] Damasio A., L’ errore di Cartesio: emozione, ragione e cervello umano, Adelphi [2] Joseph LeDoux, Il cervello emotivo alle origini delle emozioni, Baldini Castoldi Editore


SURYA NAMASKARA, METAFORA DELL’ESISTENZA

Om Ravaye Namaha – (il brillante, il radioso)
Dentro o fuori di sé
La pratica del saluto al sole mi è sempre sembrata un po’ troppo meccanica e legata al mondo della ginnastica. Non nego che, nonostante i miei 25 anni di pratica yoga, non ho incontrato una lezione dove veniva proposto il Surya Namaskara come una possibilità di apprendimento. Mi spiego: ho sentito parlare dei suoi benefici per la digestione, la flessibilità della colonna, l’estensione del respiro e via di questo passo, ma difficilmente come una pratica possibile per me dove la mente poteva in qualche modo sganciarsi ad un certo punto per lasciare spazio al sentire.
Non so se riesco ad esprimere l’emozione che ho provato quando mi si è accesa l’ennesima lampadina.
Grazie alle dispense ma anche alle parole di chi ha condotto la settima lezione di Kramavidya.
Era il momento giusto, ero io al momento giusto, di fatto quando mi è stato proposto, dopo lo studio delle singole posizioni, dopo lo studio del respiro associato ai movimenti e via di questo passo, di agire lasciando andare, lasciandomi catturare dalla fluidità del movimento, senza pensare a dove mettevo le mani, i piedi, a quanto inarcavo la colonna, a quanto riuscivo a fare un bujangasana decente; a quel punto ho capito. O meglio, a quel punto ho fatto, sono entrata dentro la dimensione che mi ha generato apprendimento.

Che cosa ho imparato?
Difficile senza dubbio tradurlo a parole, ma ho sentito di essere entrata per la prima volta dentro questa proposta.
Siccome sono una curiosa e una volta provata l’ebbrezza voglio capire meglio, mi sono messa più e più volte a praticare a casa, nel momento giusto, all’ora giusta non cercando ma aprendomi a ciò che doveva accadere. E ho scoperto che l’estasi non è qualcosa che si deve rincorrere.
Ékstasi
Che bello scoprire che estasi non è uscire di senno, uscire dalle proprie facoltà mentali ma provare a sentirsi dentro un flusso continuo, impastati con il proprio respiro, ormai ignari di star respirando ma colti alla sprovvista da questa fuoriuscita dal centro per sentirsi esattamente centrati. E’ questo ciò che ho vissuto.
In maniera molto ignorante da parte mia, ho sempre ritenuto l’esperienza estatica come condizionamento e ricerca di uno stato interiore, una sorta di forzatura delle proprie facoltà per andare a elevarsi. E’ chiaro che il condizionamento dell’estasi religiosa/cattolica ha il sopravvento nella formazione degli individui degli ultimi secoli, di fatto ho sempre visto l’estasi sotto questo profilo, un’uscita da sé per cercare di andare verso il divino(?) un’entità superiore (?) da qualche parte, insomma. Antropologicamente ogni cultura ha le sue esperienze estatiche, questa fuoriuscita da sé viene attivata sostanzialmente con iperventilazioni, o roteazioni continue. Fa parte delle esperienze dell’uomo da che mondo e mondo e questa ricerca di sensazioni forti per trovare qualcosa che sta “fuori” non mi è mai piaciuta. Forse la mia profonda laicità le ha rifiutate a priori e anche questo non è bello.
Da reminiscenze scolastiche l’estasi neoplatonica era quell’atto intuitivo con cui l’anima, uscendo da tutte le forme intelligibili che aveva in sé, tornava alla patria celeste e si univa all’Uno.
Tutta testa, tutta ricerca.
Con la lampadina accesa finalmente c’ero.

Cosa ho sentito?
Forse lo yoga non è sentire, anzi sicuramente non è sentire, ma quale altro verbo poter usare a questo punto? Ho fatto esperienza, sono in grado di ripetere l’esperienza. Insomma, il mio saluto al sole si è tradotto in qualcosa di molto personale ed estremamente interessante.
Il momento di profonda concentrazione nella montagna, le mani giunte al petto e la centratura, poi con il gesto di apertura all’indietro un’uscita dal tronco, uno sbilanciamento che mi porta fuori (primo significato di estasi), una successiva chiusura, un ritrovare me stessa, un espiro che mi fa abbandonare e rientrare, altra apertura e via di seguito in un susseguirsi di fuori e dentro, fuori centro per ritrovare il centro, con la fluidità del respiro che mi fa dire che non sono più io a respirare ma è il cosmo che respira in me, l’universo e forse oltre ancora, e questa la mia personale estasi. Non fuori di testa ma appartenente a un tutto, fusa con madre natura, con aria e fiori e bestie e pioggia e non so che altro.
Non mi importa se ho capito o no, non mi importa se la lezione aveva un obiettivo diverso, condivido ciò che ho vissuto.
Grazie, una volta ancora, ai miei maestri.


LA DANZA DELLA VITA

La danza è il linguaggio nascosto dell’anima – (Martha Graham)
L’essenza dell’annualità di Kramavidyā credo si possa concentrare per gran parte dentro l’esperienza della fluidità. Bauman[1] ci suggeriva che siamo immersi dentro una società fluida dove tutto sta diventando liquido: la relazione affettiva, il mondo del lavoro, le amicizie, le appartenenze politiche. Quasi senza rendercene conto ci siamo trovati inseriti in questa liquidità e transitiamo anonimamente dentro il fiume dell’inconsapevolezza. Non siamo consapevoli di quello che mangiamo, di quello che comperiamo, delle appartenenze sempre più stinte. La fluidità di Bauman è l’esatto contrario della fluidità di Kramavidyā, dove il concetto di vidyā diventa centrale per l’esperienza sul tappetino ma, ovviamente ancor più per la vita di ogni giorno.

MARTHA GRAHAM OVVERO DEL RESPIRO CHE ANIMA IL VESTITO

Per molti anni ho danzato – più di 20 – prima con il metodo Vaganova(potrei immaginare uno Iyengar sulle punte) poi con il metodo illuminante di Martha Graham. Negli anni della danza contemporanea ho sperimentato nelle coreografie vivificanti ed energizzanti alcuni dei principi (forse non è il loro termine corretto) del kramavidiā.
La sequenza armonica che abbiamo studiato per la seconda volta (la prima durante un’altra annualità con obiettivo diverso) mi ha riagganciato alle danze contemporanee di quella magica coreografa. Con emozione il mio corpo si è riattivato come ricordasse qualcosa che era ormai inscritto nella sua memoria muscolare, tendinea e ancora più in profondità. Fantastica la memoria del corpo!
La fluidità è senza dubbio il primo elemento agganciato alla progressione e al concatenarsi delle posizioni che mano a mano che si sviluppavano e creavano quella coreografia della vita che passa dallo stato larvale a quello adulto.
La danza Graham si svolge a piedi nudi, ha come punto focale di attenzione il fulcro addominale, proprio al centro dell’addome sotto l’ombelico. Da lì parte ogni movimento, lì il respiro inizia e ritorna in un succedersi di sequenze legate tra loro, una coreografia simbolica che ti fa dimenticare chi sei, preso dal vortice del lasciarsi andare.


VIDYĀ FA LA DIFFERENZA

L’esperienza di Kramavidyā aggiunge l’elemento consapevolezza, attenzione e vigilanza. Mentre la sequenza si sviluppa, evolve nel rituale che dalla terra porta al cielo tu sei vigile, pronto a scattare, sensi all’erta in una meditazione che non è perdita di te stesso (come capta nella danza dovi i passi e i respiri vorticano) ma presenza vigile e attenta. Sei corpo e mente e respiro il tutto unito.
La sequenza armonica è la mia pratica quotidiana, ogni giorno scopro qualcosa di nuovo, ogni giorno entro un po’ più dentro me stessa imparando a starmene fuori. Quando Roberto ce l’ha proposta un paio di anni fa ho gioito perché finalmente avevo trovato “la mia pratica” e la sfida è quella di non ripeterla ma di viverla ogni volta come fosse la prima.

[1] Zygmunt Bauman, Vita liquida, Laterza, 2008;
Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza, 2011;
Zygmunt Bauman – Thomas Leonicini, Nati liquidi, Sperling &Kupfer, 2017


RADICATI MA LEGGERI

Nello yoga la lentezza è il segreto di un rapido progresso. In poco tempo praticherete quelle asana che all’inzio vi parevano impossibili.L’unica condizione da rispettare è sempre quella della tecnica corretta. Convincetevi che l’efficacia di una asana non dipende solo dalla tecnica, ma dalla concentrazione mentale con la quale è eseguita.

(André Van Lysebeth, Imparo lo yoga, Mursia 1975, pag.82)


Siamo arrivati all’ultima lezione dell’anno, non provo alcuna tristezza perché il mese prossimo inizia Prānāyāma pertanto l’avventura continua e mi vede sempre più curiosa. Per me l’elemento curiosità è fondamentale, è quello che mi motiva, mi stuzzica, mi aiuta a tenere la vigilanza e a voler imparare ancora e ancora. Durante la nona lezione sono stati approfonditi alcuni concetti già incontrati nel corso degli anni ma riletti alla luce del filtro kramavidyā.
Mi hanno colpito alcuni che trascrivo sotto forma di parole chiave: baricentro, forza gravitazionale, equilibrio, base di appoggio.
La pratica proposta è stata una volta ancora illuminante: il baricentro consente il mio equilibrio che non è meramente fisico.
La difficoltà della messa in pratica di questi elementi è data senza dubbio da laghima, (leggerezza). Gli schemi che mi porto dentro fanno fatica ad essere scardinati pertanto trovare leggerezza e piacere nell’esecuzione di alcuni asana non è semplice.
Paradossalmente negli asana più complessi mi risulta più semplice perché vidyā si attiva di più, c’è più attenzione a ritrovare quel centro da cui far partire il respiro per appoggiarci sopra il movimento e il corpo stesso. La leggerezza e la piacevolezza non sempre le ho provate, non negli asana sul fianco ad esempio, dove la mente è stata agganciata dal fastidio di un osso iliaco schiacciato sul pavimento. Ho sperimentato la difficoltà a mollare, tornare indietro e arrendermi. La mia mente suggeriva che sapevo fare quel determinato movimento ma non era yoga. Nessuna acquolina in bocca!


HA-TA+TERRA

Ci ho messo un pochino ad accettare il mio limite, solo allora ho trovato quel piccolo brivido di piacere anche se la forma non corrispondeva a quello che avevo in testa. Ha avuto un bel dire Van Lysebeth che la tecnica è importante ma non è tutto.
Alla conclusione di questa annualità mi rendo conto che passo passo costruisco qualcosa mettendo assieme tutti gli appendimenti degli altri anni e solo ora penso di iniziare a capire che il mio equilibrio sul tappetino dipende molto dal mio equilibrio fuori, nella quotidianità, nella vita. Credo che il tappetino possa essere una sorta di cartina di tornasole di tutto il resto. Non il contrario.
Simbolicamente far fluire sole (HA), luna (TA) e terra/corpo crea quell’uno che mi sta avvicinando piano allo yoga.