Guarda in alto

Amo appoggiare la mia mano sul tronco di un albero davanti il quale passo, non per assicurarmi dell’esistenza dell’albero – di cui io non dubito – ma della mia.
Christian Bobin


Parlo a te, proprio a te. Come dici? Non mi senti? Non sono abituata a parlare troppo forte. Mi affido al sibilo leggero del vento, ai raggi mattutini del sole quando, da est, fa capolino al di sopra delle mie creste, oppure al rosso vivo del tramonto che sovente sembra imporporare di sangue la mia vetta.
Non mi senti.
Diciamo che hai perso l’abitudine ad ascoltare.
Non hai più tempo per accorgerti di quello che sta accadendo attorno a te, preso come sei da te stesso.
Pensi di essere il centro del mondo e persino dell’universo, ne sei così sicuro che sei arrivato a dire che io non sono viva. Anzi, negli ultimi anni – per me significa duecento, duecentocinquanta, sono piuttosto antica - hai iniziato anche ad appiccicarmi mille aggettivi.
Mi hai chiamato ingrata, matrigna, persino assassina.
Non mi senti è vero, a quanto pare hai perso la capacità di aprire il cuore, perché certe cose non si sentono con le orecchie ma si ascoltano con il cuore.
I tuoi bisnonni, forse trisavoli, ascoltavano bene la mia voce, addirittura mi temevano. No non avevano paura di me, mi temevano perché mi consideravano VIVA.
Erano grati per tutto quello che potevo offrire loro: i frutti per sfamarsi, mirtilli, fragole, lamponi, funghi e tutte le erbe selvatiche da mangiare e per curarsi.
Erano grati per il legname che prendevano da alberi secolari, sapevano quali tagliare per non lasciare mai troppo spoglio il mio fianco.
Cacciavano gli animali che da sempre hanno trovato riparo negli anfratti che ho creato per loro: gli orsi, i cervi, i caprioli, gli stambecchi, i camosci per non parlare delle volpi e delle lepri, dei furetti e delle marmotte.
Arrivavano, i tuoi antenati, fin dove i mughi coprivano il fianco, più su non osavano. Avevano un religioso timore, una sorta di paura per ciò che avrebbero potuto trovare.
Le altezze, si sa, non sono fatte per l’uomo ma per le divinità, è questo che pensavano.
Ascoltavano, i tuoi avi, i segnali del cielo: le nuvole che prima di riversare acqua alla pianura inanellavano le mie cime, dalla loro disposizione i vecchi sapevano se dovevano raccogliere il fieno oppure no. “Quando Cimacuta mette il capello, posa la falce e prendi il rastrello”1.
E poi la pioggia, ogni scroscio si è portata a valle un po’ della mia pelle, sassi piccoli e grandi che scendendo lungo i rivi e i ruscelli hanno consentito di avere la ghiaia da macinare per fare le vostre case. I tuoi avi hanno squadrato le pietre più grosse e sono diventate case, ovili, stavoli e stalle, chiese, scuole.
Loro lo sapevano, erano consapevoli di abitare dentro rifugi ricavati da me.
A qualcuno, ad un certo punto, è partito il guizzo di conquistarmi.
Quella paura delle altezze si è trasformata in smania, hanno iniziato a oltrepassare la soglia dei mughi e non più per cercare una capra smarrita o rincorrere un camoscio da abbattere, ma per vedere cosa ci fosse “quassù”.
All’inizio non mi dispiaceva, vivevo il solletico procurato dai rudi scarponi di cuoio, la titubanza di chi cercava un appiglio per non cadere, lo stupore estatico di chi per la prima volta guardava il suo mondo dall’alto. Si fermavano ad ammirare i rari fiori che avevano il coraggio di sbocciare, il raponzolo che sembra non avere bisogno di terra per esistere o le stelle alpine con quella lanugine delicata: stelle sulla roccia che riflettono le stelle in cielo. Ne raccoglievano una con timore, la chiudevano dentro un taccuino dove vergavano le prime impressioni.
Non è durata molto la stagione degli innamorati dei fiori, delle piante e delle rocce. Il buon Kugy che percorreva le pendici del Cridola accompagnato dalle guide del paese, i primi tedeschi che scoprivano quasi con arroganza le asperità delle cime.
In breve ha preso il sopravvento il desiderio di sfida e allora hanno iniziato a vedermi come antagonista, addirittura nemica.
Qualcuno non riusciva ad afferrare l’appiglio e con un urlo lancinante volava giù come un uccello dalle ali recise.
Davano la colpa a me, montagna assassina.
Sono sempre rimasta ferma al mio posto, non mi sono mossa e non ho chiesto a nessuno di arrivare sulla mia cima.
Non ho chiesto nulla né mi sono ribellata quando mi sono sentita piantare chiodi per aprire “nuove vie”. Pezzi della mia sostanza innaturalmente scalfiti e non per prendere una pietra da utilizzare come testata d’angolo, bensì per creare un appoggio, tanti appoggi per salire.
Ci sono zone dove ci sono più chiodi e staffe messe a disposizione degli escursionisti (o falsi alpinisti) che piantine.
I tuoi avi hanno sempre dato il nome alle mie vette, era come riconoscere che con la nostra altezza potevamo proteggere chi stava laggiù.
Cierro Torre, K2, Kilimangiaro, Fuijama, Cimacuta, Cristallo, Cervino, Gran Zebù, Monviso. Tutti nomi per distinguere una forma, per riconoscere un profilo.
Per te che fai finta di non sentire possono essere Cridola, Clap Savon, Clap Varmost, Fantuline, Pramaggiore.
Sono qui per chiederti di guardare in alto, di vedere nuovamente il sole che ad un certo punto del pomeriggio infila i suoi raggi nel Porton di Forni, la Maddalena che sempre più curva si adagia fino a stendere il suo mantello sulle ghiaie della Forcella.
Guarda nuovamente con gli occhi di un tempo, ricordati da dove vieni, cura il bosco che è sempre più lasciato a sé stesso.
Non sento più il belare di greggi né il muggito di vacche, i miei fianchi non sono più ricoperti di pascoli ma butti asfalto e bitume per aumentare opportunità di divertimento.
Sono arrivati i lupi, sono arrivati gli orsi e invece di gioire e capire come curare la foresta per consentire a tutti di ritrovare il loro naturale habitat, ti arrabbi e pensi subito a come poter sopprimere questi animali che un tempo erano abituali frequentatori dei miei fianchi.
Alza gli occhi e guarda cosa sta succedendo, guarda le nuvole che si scontrano causando vortici vertiginosi, hai visto il disastro del ciclone, come Vaia ha sradicato alberi e mi ha violato i fianchi. Pensa a quanti anni dovranno trascorrere perché tutto possa ritrovare il suo equilibrio, ma…sarà possibile ritrovarlo quell’equilibrio?
La pioggia non arriva più nei mesi primaverili, quando le nevi cedevano ai primi raggi di sole, la neve arriva se sparata da quei cannoni che la forzano, il sole acceca e diventa quasi impossibile reggere il suo calore. È tutto rovesciato, tutto estremo, tutto troppo insostenibile.
Allora accade che qualcuno di voi cerca di salire, si arrampica sulle mie pareti e io cerco di dirgli di non farlo, che troppa acqua si è infiltrata nelle crepe causate da scosse impercettibili, pezzi della mia essenza si staccano e non riesco ad avvertire, non riesco a dire “non salire, non venire in questa zona, fermati”.
È Madre Natura che stando i segnali che tutti voi e noi stiamo vedendo, non sapete più guardare in alto, non sapere fermare il vostro stile di vita che sorpassa tutto ciò che era in equilibrio.
Se manca quell’equilibrio non posso far altro che lasciarmi andare, cedere a tutto quanto sta accadendo.
Ho bisogno di credere che tu possa ancora guardare in alto e ritrovare il senso dell’esistere, il rispetto per me e per questa Madre Terra.
Ce la farai?

Paola Cosolo Marangon
1] Detto fornese di Forni di Sopra

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